Non si sa che cosa Alfonso abbia risposto all’idea del Bergamino. Certamente avrà pensato di trovarsi di fronte ad un piano inattuabile e fuorviante. Non è possibile, identificare quel progetto con il possesso intellettuale del Moro, si tratta di pura immaginazione. Bergamino possiede, come scrittore, una fantasia straordinaria, ma un conto è scrivere un libro, un altro creare un piano attuabile. Lo scrittore non può emanciparsi dall’inventare quello che vuole, il suo senso della possibilità supera ampiamente quello della realtà.
Ma la situazione che il Conte vorrebbe affrontare per trarne vantaggi personali, non è così facile come scrivere un linguaggio erotico. Si tratta dell’erotismo di un Duca per il quale il sesso non è tutto, ma senza il sesso tutto è niente. Senza contare che un racconto erotico può illuderci quando al verbo possedere fa seguire, come complemento oggetto, una persona. Un vero delirio di onnipotenza dello scrittore. Ludovico Sforza, invece, questo vaneggiamento lo ha cristallizzato per la breve eternità dell’esistenza.
Nel frattempo continua seriamente a corteggiare la moglie, senza che l’atmosfera si schiarisca, e appena può si precipita da Cecilia non più a Cremona ma a Villa Medici del Vascello dove si apparta con lei in un salottino. Lo accompagna a volte Giacomo Trotti, entrato a Milano in qualità di ambasciatore estense e ivi rimasto perché nelle grazie di Ludovico il Moro. D’altro canto, il Trotti che da consumato professionista della diplomazia ha gestito con Eleonora d’Este le trattative del contratto di matrimonio fra il Moro e Beatrice, è al corrente delle difficoltà tra gli sposi.
Un giorno, mentre passeggiano chiacchierando del più e del meno, il duca pone un braccio intorno alle spalle del Trotti, si volta un attimo solo per sincerarsi che le guardie siano alla distanza di parecchi metri, poi gli avvicina le labbra all’orecchio e gli sussurra: “Giacomo carissimo, desidero farvi una confidenza, ma guardatevene bene dal diffonderne la voce...”
“Gentile mio signore, vi ringrazio della fiducia che riponete in me. Senz’ombra di dubbio, sappiate quanto vi sono riconoscente e devoto per la vostra benevolenza, mai e poi mai potrei fare o dire cose a vostro danno!”
“Bene!” continua il Moro, sbirciando una volta ancora le guardie per maggiore precauzione. “Sappiate che Beatrice, la vostra protetta, rifiuta i doveri coniugali, non sta mai ferma, addirittura si divincola impedendomi ogni amplesso...”
“Ne sono al corrente, Beatrice stessa me ne ha parlato. Sostiene a sua difesa di non essere ancora donna e teme di procreare figli anormali, per questo motivo.” “... si, credo che lo sappiano ormai tutti a palazzo, ma non sanno la novità che mi propone, vuole che mi sfoghi con Cecilia, mi dà il suo benestare, anzi desidera che io lo faccia, perché vuole restare in pace fino al suo completo sviluppo. Naturalmente ho assecondato mia moglie e, appena posso, faccio la spola tra Milano e Cremona.”
Trotti rimane stupito dalla clandestinità amatoria del duca che racconta non solo il peccato ma svela anche la peccatrice. Il centro mobile di tutta la faccenda è però la distanza. Malgrado il Moro si serva della carrozza ducale trainata da parecchi cavalli, occorrono sempre due giorni, uno per andare e l’altro per tornare. Nell’intervallo di tempo deve poi pernottare e le locande, anche se del Rinascimento, conservano pur sempre un’impronta medievale. Spontanea al Trotti sorge una domanda: “Scusate mio signore, ma il marito di Cecilia lo sa?”
“Ne è al corrente, sa benissimo perché io l’ho ‘consigliato’ di sposare Cecilia e di prendersi cura di mio figlio Cesare. D’altro canto il conte Lodovico Carminati mi deve molto, ed io l’ho compensato generosamente con molti ducati e con Villa Medici del Vascello in San Giovanni in Croce. Sa benissimo che in cambio mi sarei incontrato con Cecilia, nonché avrei rivisto mio figlio.
Tu fai un grande favore a me e io te ne sarò infinitamente grato.”“Capisco, ma almeno potevate scegliere una dimora più vicina, non vi pare?”
“Così l’avrebbero saputo tutti il giorno stesso. Non conoscete Trotti il mito di Galatea? No!? Galatea e il triangolo amoroso ‘divino’, il mito tra i più romantici del mondo. Io amo veramente Cecilia, e non potrei vivere senza di lei. Il trionfo dell’amore, caro Trotti, persino rappresentato nell’arte, spesso affrescato sulle pareti di ricche residenze nobiliari. Io volevo farlo dipingere sulla volta della mia camera da letto, poi ci ho ripensato, non avevo sotto mano un pittore esperto nel profano, tutti immersi nel sacro a immortalare santi e madonne! E poi Galatea ha delle assonanze con Gallerani, il cognome della mia amante. Pure la pelle hanno in comune le due donne, in entrambe bianca come il latte. Lo dice il nome che deriva dal greco γάλα, latte...”
“... adesso me ne ricordo, il mito non è nelle Metamorfosi di Ovidio? La ninfa del mare amata da Polifemo e da un giovane pastore?
“Bravo! Il pastore Aci che viene ucciso da Polifemo con un enorme masso. Per tenerlo in vita, Galatea trasforma il sangue di Aci in una sorgente, in un dio fluviale, ecco il trionfo di Galatea e dell’amore!”
“Questo mito mi preoccupa, signore, non vorrei vedere Cecilia su una conchiglia, trascinata da delfini, che fende le acque dei navigli di messer Leonardo...”
“Non conoscevo questo vostro lato spiritoso, siete arguto, mio caro Trotti.”
“Vi ringrazio, anche se non ho ben compreso chi sareste dei due innamorati, in tal caso, quello che lancia o quello che riceve il masso?”
“L’arguzia la possedete, la fantasia però un po’ vi manca. Sarei Aci, il dio fluviale, è ovvio non vi pare?”
“Giusto, che sbadato sono! Duca, ma allora non sarebbe più semplice far tornare Cecilia a palazzo?”
Interrogarsi sul senso di quello che si sta dicendo è una iniziativa che a volte sarebbe meglio evitare; pronunciata la domanda, Trotti, pentito, si interroga su ciò che ha appena detto. La motivazione sembra scontata, addirittura altruistica, ma la soluzione è quasi cabalistica. La risposta del Moro non si fa attendere.
“Sono d’accordo Trotti! Direi che si tratta di una necessità fatale. Visto che siete voi a proporla, pensateci voi ad offrire a Cecilia lo spazio di una camera il più vicino possibile alla mia coniugale, non potete negarvi!”
Rimasto solo, Il Trotti si accorge che la passione del duca per Cecilia è una verità eterna.
Chi cammina sul suolo di una patria, sul terreno di una fede religiosa, o di una tassa da pagare, porta le sue ambizioni o i suoi doveri sotto i piedi, non così il Moro, la cui vanità libertina sale senza raggiungere la testa, e si arresta a metà strada, sotto la cintura, dove è molto più difficile ragionare. Una forma, la sua, di mite pazzia che non conosce ragionevolezza. “A horse! A horse! My Kingdom for a horse!” grida Riccardo III nella battaglia in cui viene disarcionato dal suo destriero. Non si sa che cosa griderebbe il Moro in una situazione analoga, anche perché è una evenienza quasi impossibile; non cavalca da tempo focosi destrieri, tutt’al più potrebbe cadere giù dal letto. D’altro canto il volere del duca non ammette fraintendimenti grossolani. L’immagine che traccia non dà alternative, approda impietosa all’ordine martellante, preciso, di una camera da letto accanto alla sua. La maldestra intuizione del Trotti ha quindi dei nessi con l’attualismo e il problematicismo così uniti nel divenire che porterebbero un’idea inconscia del duca al suo io, cioè al suo conscio. C’è poco da scherzare, il suo signore è dotato di una memoria ipermnestica per quanto concerne i rapporti con le donne, ricorda tutto, la sua vita muliebre non è il romanzo dove non succede niente, ma il romanzo dove ricorda tutto, compresi i figli indesiderati e illegittimi.